Grosse teste con creste aguzze che spiccavano verso l’alto, due a sinistra e due a destra; lingue rosse che uscivano tra denti minacciosi e fumi colorati, il tutto accompagnato da musiche stridenti e vocii paurosi che sgorgavano dagli altoparlanti posti ai lati dei quattro draghi.
Sara non ci voleva salire su quella giostra, le faceva paura, proprio non le piaceva.
Ma il fratello maggiore insisteva, voleva metterla alla prova, oppure mettere alla prova la propria stupida superiorità maschile.
Allora Sara, cocciuta, testarda e tenace come sempre, raccogliendo la paura nelle sue spalle esili, acconsentì e salì su quella giostra dei draghi verdi che, appena partita, catapultò i loro corpi a velocità talmente assurde da far accapponare la pelle anche al più temerario degli uomini coraggiosi.
E sai che divertimento!?
Un divertimento da ricordare, vero Sara?
Il racconto me lo fa la madre di questa bimba di sette anni gracile, pallida, emaciata e silenziosa.
Troppo silenziosa.
Al punto da non far uscire dalle sottili labbra nemmeno un accenno di saluto, nemmeno una smorfia del viso e, dopo un solo timidissimo sguardo iniziale, nemmeno i piccoli occhi riuscivano a indirizzarsi verso di me.
Sara non c’era.
Non voleva esserci.
Non voleva ormai più nessuno.
La madre racconta che dopo quell’esperienza, quel viaggio sulla giostra del drago, Sara non ha più parlato con nessuno, le uniche scarne parole erano quelle che rivolgeva alla madre ma in assoluta intimità, senza che nessun’altro potesse ascoltare o solamente vedere questa piccola bimba intimorita parlare.
Già, perché parlare o confidarsi sarebbe sembrata una debolezza e si sa, i deboli non sono fatti per i draghi.
Mi viene riferito anche che da quel momento Sara non ha più voluto andare a scuola.
Senza motivi, senza giustificazioni, senza apparenti motivazioni.
Non è che non ci provasse, anzi, ogni mattina percorreva la strada del piccolo paese che la conduceva all’edificio scolastico ma quando si trovava di fronte ad esso iniziava a sentirsi male: sudava freddo, il cuore palpitava, i muscoli si irrigidivano: non riusciva ad entrarci in quella scuola.
Un giorno ci era anche entrata ma, dopo solo alcuni minuti la videro svenuta sul banco.
Trattiene a stento le lacrime la signora che mi sta raccontando l’ultimo mese di disavventure della sua bambina.
Le trattiene fino a quando dalla borsa non toglie, appoggiandoli sul tavolo, tutti i farmaci che medici e specialisti hanno prescritto alla bimba.
Adesso le lacrime scendono e scivolano su questo viso che, pur marcato dalla sofferenza, mantiene il colore roseo della sua costituzione.
Mi aspetto che Sara, magari commossa, emozionata o colpita dal pianto della madre, abbia qualche reazione; invece nulla, nemmeno si avvicina e scorgo che, mentre la madre cerca di avvicinarsela tendendole un braccio, si scosta bruscamente.
La signora si accorge che la scena non mi è stata indifferente e mi sussurra che, da quella volta, Sara non vuole essere toccata: da niente e da nessuno, nemmeno sfiorata, figuriamoci baciata.
Lancio un’occhiata ai farmaci che sono stati sottoposti al mio sguardo e, con un certo fastidio, mi accorgo che si tratta di psicofarmaci.
Di ogni tipo e di ogni genere.
Accolgo la preoccupazione della madre nel continuare a somministrare quelle medicine alla figlia, ma sottolineo che non è in mio potere (nemmeno diritto) sia sotto il profilo legale che a livello etico esprimere giudizi sull’operato dei medici e soprattutto sull’efficacia o meno dei farmaci.
Spiego che la mia professione e soprattutto la mia preparazione seguono una strada completamente differente rispetto a quella medica, che comunque non viene in alcun modo osteggiata o contrastata e che, non essendo medico ma naturopata non posso permettermi di modificare, anche a livello di consiglio, le indicazioni dei medici.
Mi guarda fisso per un attimo e poi si scioglie in un sorriso facendomi intuire di aver ben capito e che, probabilmente proprio per quanto io ho detto, lei si era rivolta a me.
Rispondo compiaciuto al sorriso e chiedo ulteriori notizie, non tanto sull’episodio accaduto quanto sull’infanzia di Sara e sulle persone che ha frequentato e che attualmente frequenta.
Ne esce un quadro “tranquillo” apparentemente sereno, senza strattoni o “deviazioni” di sorta: un quadro da brividi piatti, senza emozioni né deboli né forti, senza cambiamenti, senza alcun tipo di altura.
Proprio come il paesaggio che contorna la loro abitazione: deserto, piatto, tranquillo, con un’unica strada che, lunga e diritta come un ago da calza, scorre per le campagne circostanti collegando l’abitazione della famiglia di Sara con la strada principale.
Un’infanzia fatta di molto silenzio, di grandi giornate vuote, silenziose, tranquille: assolutamente e volutamente asettiche.
Non posso certo permettermi di giudicare scelte di vita di persone semplici, umili e comunque oneste, come mi sembrava la persona che mi sedeva di fronte ma, non posso comunque fare a meno di pensare che forse la crescita di un bambino, di una nuova persona, ha necessariamente bisogno anche di stimoli differenti.
Di stimoli e di situazioni che possano portare anche al di là della lunga strada diritta e desolatamente vuota, anche al di là delle sole campagne circostanti, anche al di là dell’unico rumore di niente che avvolge il caseggiato dove Sara è nata e vive tuttora.
Ma si sa, l’occhio e la mente del cittadino metropolitano tendono sempre ad essere ipercritici nei confronti dell’opposto vitale.
La mente e l’occhio dell’umano tendono sempre e comunque, per istinto o per necessità, a criticare ciò che viene inteso come diverso, come differente; forse per un pizzico di invidia nei confronti degli opposti o solamente per manifesta incapacità nel sentirsi capaci e in grado di poter gestire situazioni che sembrano così distanti da affacciarsi alle nostre menti con una timidezza e un timore reverenziale assolutamente estremi.
Provo a guardare attentamente questa bimba che non vuole farsi scrutare, che si nasconde svolazzando lenta nella stanza giocando con le nostre ombre e con la sua mite e minuta figura.
Salta, la sua ombra, o forse la sua candida anima, da un angolo all’altro, dall’alto in basso, dal soffitto al pavimento, da una parete all’altra senza mai fermarsi, senza mai farsi prendere o solamente vedere.
Perché Sara non c’è.
Non ci vuole essere.
Il mio sguardo deve infastidirla a tal punto da farmi sentire in imbarazzo concedendomi, ogni tanto, delle occhiate pesanti come macigni e intrise di sfida netta e cocente come le sue voglie e i suoi pensieri, così turbati da non farla quasi più vivere in maniera serena. Magari tranquilla. Come quel posto nel quale vive.
Procedo nel mio percorso professionale e, chiaramente e per fortuna, non trovo assolutamente nulla che possa spiegare o giustificare un simile atteggiamento.
Mi limito a consigliare alcuni composti di piante e un’essenza di gelsomino, per cercare quantomeno una sorta di riequilibrio a livello nervoso e, dopo aver tranquillizzato la madre, mi accingo a salutarla dandoci appuntamento al mese successivo.
Sono solito portare nella borsa dei piccoli “gadget” che utilizzo, regalandoli, quando mi vengono a trovare dei bambini, e anche quel giorno metto mano alla borsa e ne estraggo un piccolo cane di peluche che funge da ciondolo o portachiavi.
Lo allungo a Sara mentre sto per salutarla.
La sua mano si tende verso il peluche e i suoi occhi cambiano improvvisamente aspetto: si rivitalizzano, si emozionano, si colorano di una luce squisita che mai era apparsa durante il tempo del nostro incontro.